Qui ogni impresa è possibile

Un viaggio nel tessuto produttivo e nelle vocazioni della manifattura lombarda, dove si incontrano tradizione e innovazione, artigianalità e industrializzazione.

di Paolo Bricco

La patologia e la fisiologia. La patologia provocata dal Covid-19, con le sue conseguenze violente e in parte ancora misteriose sull’economia di tutto il mondo. La fisiologia di un sistema imprenditoriale che ha anima e cuore, identità e struttura, versatilità e coesione.

Milano, Monza e la Brianza, Lodi e Pavia compongono e riflettono la sequenza genetica del Paese. La struttura primaria del Dna economico e civile, sociale e culturale italiano è racchiuso e custodito in questo territorio allargato e nelle sue città, nelle sue fabbriche e nei suoi laboratori, nelle sue università e nei suoi uffici. Qui c’è la struttura più profonda e articolata, più preziosa e delicata della fisiologia non solo della Lombardia e del Nord, ma di tutto quel fenomeno estremamente complesso e vitale, denso di criticità e di potenzialità che è l’Italia.

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Per questa ragione l’enigmatico impatto della drammatica crisi provocata dalla pandemia del coronavirus va osservato – anzi, va auscultato – con gli strumenti più raffinati. Per questo la reazione del sistema imprenditoriale va seguita con la maggiore attenzione possibile. Perché è questa la frontiera più avanzata del Paese. Se il Dna di queste terre fosse alterato, la natura dell’Italia – la seconda manifattura europea - verrebbe compromessa. Se la passione di questi uomini e di queste donne si trasformasse in cenere, una parte essenziale del patrimonio genetico nazionale – la vocazione a fare impresa, sempre e comunque, con qualunque vincolo esterno – sarebbe lesa in una sua componente strategica.

Oggi ogni cosa è molto complicata. L’attuale recessione ha una tale intensità da modificare l’industria e il commercio, la finanza e i rapporti fra il settore privato e il settore pubblico, con un ricorso esasperato alla finanza pubblica e la crescita tracimante del ruolo dello Stato. Questo accade ovunque: in Asia e in Europa, negli Stati Uniti e in America Latina. Alcuni elementi, però, si vedono a occhio nudo. E quello che si vede a occhio nudo è che il territorio composito e articolato formato da Milano, Monza e la Brianza, Lodi e Pavia – a questo passaggio tanto complesso da rischiare di coincidere con un cambio di paradigma – è arrivato con una versatilità e una multispecializzazione, una energia e una struttura produttiva che gli hanno già consentito di misurarsi con i radicali mutamenti degli ultimi trent’anni.

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Prima di tutto è una questione di magnitudo e di grandezza. Milano, con le sue oltre 300mila imprese e con un milione e mezzo di addetti, un valore aggiunto di 162 miliardi di euro e un export di 45,7 miliardi, vale un decimo dell’economia nazionale. Lodi ha 15mila imprese e 57mila occupati, 5,5 miliardi di euro di valore aggiunto e 3,6 miliardi di export. Pavia ha 40mila aziende e 132mila addetti, un valore aggiunto pari a 12,4 miliardi di euro e un export di 4,1 miliardi. Fra Monza e la Brianza ci sono 74mila aziende con 272mila occupati, che sviluppano 24,5 miliardi di euro di valore aggiunto e 9,6 miliardi di export. L’aggregato complessivo di tutto questo rappresenta il nocciolo duro della manifattura pura, del terziario industriale e della ricerca applicata più consistente e solido che vi sia in Italia.

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Il punto, però, non è soltanto la consistenza quantitativa. Né la sua solidità. È anche un problema di profilo strategico. E, questo profilo strategico, è il risultato di una traiettoria di lungo periodo. Nella interpretazione di questo pezzo di Nord, di questo pezzo d’Italia. Con i primi anni Novanta, il nostro Paese ha cambiato il suo paradigma storico. Dopo oltre mezzo secolo di grande impresa pubblica e privata e di alta concentrazione nelle agglomerazioni urbane, il tessuto produttivo si è fatto meno concentrato e più granulare, meno gerarchico e più diffuso, meno catalizzato intorno ai grandi centri a vocazione puramente fordista e più “spolverato” sui territori. La fine del capitalismo delle grandi famiglie del Novecento e il ridimensionamento dell’economia statale di antica matrice IRI hanno mutato l’identità e gli equilibri del Paese. La dura selezione delle imprese provocata dall’introduzione dell’euro e gli effetti della concorrenza internazionale della nuova globalizzazione hanno provocato in Italia una metamorfosi dolorosa ma vitale. Una metamorfosi che ha avuto una delle sue più efficaci declinazioni nell’ampio e diversificato territorio che unisce Milano, Monza e la Brianza, Lodi e Pavia. Altri territori, dopo gli anni Novanta e con l’abbandono della lira, sono caduti senza più rialzarsi. Qui è successo il contrario.

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Milano, Monza e la Brianza, Lodi e Pavia hanno sperimentato la paradossale concomitanza dell’acuirsi delle proprie specificità e della convergenza verso un modello composito, ma dotato di una sua coesione. E, adesso che ogni forma industriale si sta misurando con una recessione di natura mai conosciuta prima, arrivano a questo passaggio epocale con delle identità nitide, fra le migliori forme particolari di un modello italiano che, negli ultimi trent’anni, ha definito alcune caratteristiche generali: specializzazioni a medio e ad alto contenuto tecnologico, identità culturali ed economiche irriproducibili altrove e una dimensione plastica dell’economia che sta sul confine fra fabbrica e natura, impresa e antropologia.

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La modernità di Milano è stata scossa dal Covid-19. Ma, questa modernità, non è effimera e acerba. È una modernità che nasce da una vocazione internazionale storica: Covid o non Covid, sbandamento o non sbandamento delle sue élite, Milano rimane la città più internazionalizzata del Paese e resta la città tanto amata da Stendhal, che sulla tomba a Parigi volle, insieme al suo vero nome e cognome, la scritta “Arrigo Beyle, milanese. Scrisse. Amò. Visse”. Quella di Milano è una modernità che nasce anche da scelte strategiche compiute quarant’anni fa. Non solo la finanza e i servizi assicurativi. Ma anche la moda, con la evoluzione – tutt’altro che scontata – dei sarti in stilisti e degli stilisti in imprenditori. Non solo le nuove tecnologie. Ma anche la chimica-farmaceutica e la filiera delle life science che riesce a connettere l’industria (farmaceutica, dispositivi medici, servizi di ricerca biotech, gas a uso medico) con il commercio e i servizi sanitari e a comporre un organismo complesso e avanzato fra manifattura e università, centri di ricerca e ospedali, pubblico e privato.

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Il territorio di Lodi è immerso in un dialogo costante fra passato e modernità. Prima di tutto grazie alla vocazione quasi ancestrale all’agricoltura e all’agroalimentare: “Le rogge seguono le strade, spesso due e due per ogni parte. Si avverte la presenza sorda delle acque che imbevono la terra, spingono verso il fiume in rivoli sotterranei, scaturiscono nei fontanili. Nei villaggi si scorgono i contadini raggruppati e avviluppati l’inverno di mantelli neri. Le rane che la sera fanno coro nelle acque, si ritrovano sulle mense”, si legge nel “Viaggio in Italia” pubblicato nel 1957 da Guido Piovene. Ma, con il tempo, Lodi ha sviluppato anche specializzazioni produttive nella farmaceutica e nella chimica, nella versione estetica da mass market della cosmetica. Lodi, oltre alla presenza di settori come la gomma-plastica e le apparecchiature elettriche, secondo una delle cifre costanti del nostro modello di sviluppo nazionale ha punteggiato il suo tessuto produttivo di una meccanica che rappresenta davvero l’alfabeto comune primordiale del linguaggio industriale italiano.

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La stessa multispecializzazione e la medesima dialettica fra tradizione e innovazione sono riscontrabili a Pavia, dove l’agroalimentare collegato all’agricoltura, alle macchine agricole e al packaging fa il paio con una realtà della chimica e della farmaceutica, della salute e della ricerca scientifica che sviluppa rapporti e sinergie con ospedali e università. Il futuro si intreccia con la tradizione nel calzaturiero, che a Vigevano ha ancora un suo fulcro e dove è ancora viva la memoria del boom economico, con Giorgio Bocca che sul Giorno del 10 gennaio 1962 scriveva: “Ora anche i braccianti della Lomellina si inurbano in questa Vigevano dove i contadini possono diventare ciabattini e i ciabattini industriali nel volgere di poche settimane. Avanti popolo, la ricchezza è a portata di mano, di fallimento non si muore e se va bene va bene, il denaro circola, il disoccupato manca, le boutiques, i negozi di primizie, i fiorai sono gli stessi di via Montenapoleone e più cari, gli elettrodomestici e le automobili si vendono che è un piacere”.

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La multidisciplinarietà rappresenta il canone anche di Monza e della Brianza, dove si trovano imprese della meccanica strumentale, della componentistica automotive, della meccatronica e della farmaceutica. Una varietà nelle specializzazioni che si unisce alla storica focalizzazione sul legno-arredo. Questo comparto ha, nella sua fisiologia più profonda, la capacità di connettere il passato con il presente e con il futuro. Carlo Emilio Gadda, nel romanzo “L’Adalgisa”, nel 1944 scriveva che la protagonista pensa soltanto alla "stansa de Lissòn", la camera da letto di Lissone. La Brianza è questo. Una tradizione artigianale che, dall’Ottocento e dal primo Novecento, è arrivata nell’Italia del boom economico diventandone uno dei lieviti essenziali e che, adesso, costituisce uno dei fattori più originali e meno riproducibili nel contesto della competizione internazionale.

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Ora, la prova più dura. Tutti questi elementi conservano la loro validità con la crisi della globalizzazione e rappresentano carte da calare al tavolo da gioco del nuovo mondo che, fra mille sofferenze e incognite, nascerà dal Covid-19. Perché, prima di tutto, contano la cultura, il saper fare e l’identità. E – in questi territori -  vale quello che scriveva nel 1890 Alfred Marshall nei “Principi di Economia”: “I misteri dell’industria non sono più tali. E’ come se stessero nell’aria, e i fanciulli ne apprendono molti inconsapevolmente”. Perché questo sono Milano, Monza e la Brianza, Lodi e Pavia.

 
 
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