Un prezzo alto. Coniugare ragioni economiche e politiche, imprese e paese, è complicato. Più di una ricerca, tra cui Reshoring: myth or reality. OCSE, 2016, conferma una crescente riduzione della differenza del costo del lavoro tra Asia e Occidente; sia per il suo innalzamento nei paesi emergenti, sia per l’automazione nei paesi avanzati.
Anche A.T. Kearney ha calcolato che dal 2013 l’import Usa da 14 Paesi low-cost dell’Asia è cresciuto in termini di valore del 14%. Ma se adesso rientrare appare economicamente conveniente, vanno però considerati due aspetti.
Da una parte, la de-localizzazione del viaggio di andata non era spinta solo da ragioni di costo, ma anche da un fisco e da una burocrazia più vantaggiosi che in casa. Molti ricorderanno le politiche “spinte” di attrazione da parte di Austria, Slovenia o delle free zone del Mediterraneo.
Dall’altra c’è il costo del rientro, perché ogni trasloco ha un prezzo. E chi lo paga? Lo può pagare l’impresa, se fa rientrare produzioni ad alto valore aggiunto, magari automatizzate. Può farlo il consumatore, pagando di più ma solo per prodotti sostenibili, di qualità e gamma elevata, con un marchio nazionale garantito. E può farlo lo Stato.
Ma “ricostruire un’economia alla vecchia maniera ci costerà una cifra astronomica” ha detto Jean Pisani-Ferry, economista vicino al Presidente francese Macron. Ovvero?
Con politiche di offerta localizzativa e incentivi agli investimenti produttivi (es. riqualificazione/riconversione di aree industriali o dismesse), con l’aumento del valore ammortizzabile, la diminuzione del divario del costo energetico con l’estero, la riduzione della pressione fiscale, i contributi per le assunzioni e gli incentivi all’innovazione. Quindi con la bacchetta magica e probabilmente con il debito. E saremmo di nuovo da capo.
A meno che si ritorni un po’ a casa e un po’ da quei paesi vicini, per cultura, non solo per geografia, che negli anni si sono dimostrati dei produttori bravi e convenienti, e che possiamo aiutare a diventare ottimi mercati di sbocco.