I nuovi scenari del settore della cultura tra distanziamento sociale e digitale

L’emergenza Covid-19 e il lockdown con i vincoli di distanziamento sociale hanno colpito con particolare violenza le attività culturali. Abbiamo provato a comprenderne profilo e specificità con Andrea Cancellato, Presidente di Federculture e project manager per il Design Museum ADI collezione Compasso d’oro.

3 maggio 2020

Abbiamo provato a capire quali sono le esigenze immediate di imprese e professionisti che operano in quel settore e quali scenari di medio termine si prospettano perché un settore così cruciale per la stessa identità del Paese e dei suoi territori possano transitare con successo verso il “New normal” che ci aspetta.

Di che cosa si parla quando si dice “settore della cultura” in Italia, tanto in termini economici e occupazionali, quanto in termini più qualitativi, di ruolo e di servizio alla collettività?

È molto difficile quantificare la dimensione del mondo della cultura in Italia. Da un lato perché il Codice ATECO senz’altro non aiuta (come del resto accade per larga parte dei settori economici), dall’altro perché gli studi compiuti negli anni portano a risultati difformi. Ad ogni modo, un recente studio a cura di Intesa SanPaolo e Mediocredito Italiano (*) stima in oltre 840.000 gli occupati diretti del settore. Si tratta quindi di uno dei più importanti comparti economici del Paese. Symbola ha invece valutato in oltre 95 miliardi il peso economico della cultura nel nostro Paese. Naturalmente si tratta di dati al netto dei riflessi che il sistema della cultura genera su altri settori economici, a partire dal turismo. In ambito culturale l’Italia vanta una capacità attrattiva fra le maggiori al mondo. Infine, va certamente sottolineata la funzione sociale e di utilità pubblica che le istituzioni e le imprese del settore svolgono nelle nostre città. In molti casi - soprattutto nelle zone più periferiche delle grandi città - la cultura rappresenta l’unico presidio di vita sociale, com’è nel caso delle biblioteche rionali o dei piccoli teatri.

Qual è la condizione che vivono enti, istituzioni, imprese e professionisti del settore dopo quasi due mesi di lockdown?

Il mondo delle strutture e delle imprese culturali è stato il primo costretto alla chiusura e sarà l’ultimo che potrà riaprire, peraltro con più di un’incognita relativa alla sua capacità di tornare a pieno regime in presenza dei vincoli di distanziamento sociale. E non è solo l'incertezza sul futuro a turbare, ma l'evidenza di un disastro che si sta già consumando. Tutti gli operatori hanno la piena consapevolezza della necessità di cambiare le modalità di produzione e di offerta culturale. Un’operazione che non si può improvvisare e che richiede tempo. Proprio per questo abbiamo affermato con forza, e con il sostegno mai così ampio di tutto il mondo delle istituzioni culturali italiane, la costituzione di un Fondo per la Cultura per consentire di “comprare tempo” e progettare il nuovo, innovando i modelli di business culturale e le modalità di fruizione del prodotto culturale, anche grazie alle nuove tecnologie della comunicazione. Diversamente, molte imprese rischiano di non sopravvivere. Il quel caso potremmo davvero registrare un’enorme dispersione di competenze e un significativo indebolimento di un’industria cruciale e distintiva per il nostro Paese.

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Non c’è dubbio che l’emergenza abbia dato una potentissima spinta al digitale e, in particolare, alle attività in remoto, incluse produzione e fruizione di cultura. Tutti ne abbiamo apprezzato l’utilità e meno riflettuto sui suoi limiti?

Il digitale ha rappresentato una prima valvola di sfogo per mantenere aperte le relazioni tra i produttori di cultura e il pubblico. Occorre però avvertire che la produzione culturale si sviluppa in una comunità, il digitale può aiutare questa fruizione ma non può sostituire l’esperienza comunitaria che vive in un rapporto simbiotico e insostituibile, dove anche la presenza fisica del pubblico ha una sua funzione cruciale. Inoltre, una produzione per il “digitale” ha caratteristiche diverse rispetto a quella tradizionale; è come produrre due volte: la regia televisiva di un’opera della Scala è cosa distinta e diversa dalla regia dello spettacolo sul palcoscenico ed è quindi da affrontare con competenze e modalità tipiche degli strumenti adottati. Per questo, se avremo modo di superare l’emergenza senza perdere il prezioso capitale di competenze accumulato negli anni, ci sarà l’opportunità di una grande innovazione dei modelli di business con un ruolo importante per le nuove tecnologie e l’insieme delle professionalità che richiedono.

Il design è l’ambito specifico nel quale lavori da anni come professionista. Forse non c’è terreno migliore in cui si sia manifestato l’incontro tra cultura d’impresa e cultura del progetto, dando luogo a una delle più grandi eccellenze italiane. Se ne può ricavare qualche suggerimento per il mondo nuovo in cui ci troveremo una volta chiusa l’emergenza?

È di assoluta evidenza che questa pandemia abbia cambiato completamente il paradigma del “fare progetto” in ogni parte del mondo. In Italia, se vogliamo mantenere il ruolo di primazia che abbiamo avuto in tanti anni, dobbiamo non solo prenderne atto ma favorire un nuovo modo di fare progetto capace di interpretare i bisogni, le difficoltà e, a volte, anche le sofferenze che ci stanno vicino identificando soluzioni praticabili. La fortuna del design italiano e del Made in Italy era basata su una economia di pace, frutto di relazioni e dialoghi. Noi oggi siamo di fronte a una fase nuova che può anche essere di lungo periodo. Non basta più, se mai è stata sufficiente in passato, una risoluzione elegante a problemi complessi. È richiesto altro: la capacità di coniugare definitivamente design a innovazione. Anche il sistema formativo ne deve prendere atto e i primi segnali sono incoraggianti.

*(Indagine sulle imprese e creative, 2019)

 
 
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