La Regina Elisabetta II ha dato il Royal Assent, il Parlamento europeo ha ratificato l’accordo di recesso e, pur senza i rintocchi del Big Ben a sugellare lo storico passaggio, dalla mezzanotte del 31 gennaio 2020 la Gran Bretagna torna ad essere un’isola, sola in mezzo al mare e ufficialmente fuori dall’Unione europea.

La buona notizia è che c’è un accordo a scongiurare il tanto temuto no deal e agevolare un recesso ordinato, ma se sono chiari e ben definiti alcuni termini del divorzio, dai diritti dei cittadini agli impegni finanziari, è ancora buio sulle relazioni commerciali, per le quali c’è giusto l’impegno a voler siglare un accordo, e solo undici mesi per realizzarlo. L’attenzione è dunque ora tutta spostata sul cosiddetto periodo transitorio, destinato a concludersi il 31 dicembre 2020 - a meno di proroghe che per il momento l’esecutivo britannico ha categoricamente confutato – termine entro il quale bisognerà portare a conclusione la negoziazione commerciale, pena un nuovo rischio di Hard Brexit

Uno scenario che non gioverebbe a nessuno, visto che l’import-export tra Regno Unito e Unione europea sarebbe equiparato a quello tra stati terzi, con conseguente regolamentazione degli scambi commerciali sulla base delle regole del WTO (l’Organizzazione Internazionale del Commercio) e una serie di cambiamenti e intuibili disagi per gli operatori economici che potrebbero andare dalla reintroduzione di controlli e verifiche doganali alla frontiera, all’applicazione di dazi all’importazione. Questi sarebbero una vera catastrofe per il settore che al momento ha il Regno Unito come principale acquirente e che più ne subirebbe le conseguenze, cioè quello dei “Vini e Bevande”, con i sudditi di Sua Maestà che ad oggi sono i consumatori più appassionati delle bollicine nostrane, e il Prosecco che ha appena compiuto uno storico sorpasso sulle vendite di Champagne.  

Soprattutto in alcuni comparti, oltre alle barriere tariffarie e al possibile cambiamento del quadro regolamentare, a pesare ancor più ci sarebbero le cosiddette barriere non tariffarie, quali l’esigenza di dover riorganizzare la propria logistica ma anche l’allungamento dei tempi di sdoganamento delle merci, un problema estremamente nocivo ad esempio nel settore agrifood e con particolare riferimento ad alcuni tipi di prodotti freschi. Ancora, da non trascurare anche il problema della tutela dei prodotti ad indicazione geografica di qualità e quello delle imitazioni e contraffazioni, già fortemente sentito e sicuramente favorito in caso di aumento dei prezzi finali sugli originali certificati. Più in generale, focalizzandosi sul versante delle PMI, si tratterà (anche) di dover acquisire dimestichezza e competenza con le nuove regole doganali, le procedure IVA non più comunitaria, la normativa sul lavoro, la revisione dei contratti e soprattutto, per molti, il doversi rapportare per la prima volta con un Paese fuori dalle regole dell’Unione.

Eppure: mai come per l’Italia, per una volta, è bene “dare i numeri”. Secondo le elaborazioni di Standard & Poor’s, nella classifica che calcola l’indice di vulnerabilità alla Brexit (“Brexit Sensitivity Index”), l’Italia si colloca al diciannovesimo posto su venti: come dire, quasi non ci riguarda; anche la percezione che ne hanno gli imprenditori italiani tutto sommato rispecchia tale dato, visto che da un’indagine recentissima di Promos Italia in collaborazione con la Camera di Commercio di Milano, Monza Brianza e Lodi, solo un comunque contenuto 21% si aspetta dalla Brexit conseguenze negative sul proprio business, e meno dell’1% degli oltre 200 intervistati le giudica rilevanti. A trainare gli interscambi italiani con il Regno Unito è la Lombardia, con il 24,3% delle transazioni ed un export che vede i settori dei mezzi di trasporto, macchinari, tessile ed abbigliamento ai vertici della classifica: è dunque presumibile pensare che queste saranno le aree più coinvolte dal cambiamento.

Più in generale, l’export verso la terra di Albione pesa per il 5% degli scambi esteri italiani: una percentuale tutto sommato ridotta, soprattutto se rapportata ad altri Paesi europei, e che eppure costituisce una quota significativa per alcuni operatori: la parola d’ordine, per navigare la Brexit in modo vantaggioso, diventa ora organizzazione. Perché davvero da rischio diventi un’opportunità, è importante che le aziende italiane, soprattutto le PMI che rappresentano il cuore del tessuto imprenditoriale italiano, vi arrivino preparate: comprendendo fino in fondo la propria esposizione potenziale al rischio e attivando una serie di misure di prevenzione che garantiscano la continuità operativa, che si tratti della nuova normativa IVA e doganale o quella sul lavoro, della riorganizzazione della supply chain o del controllo di qualità secondo standard diversi. 

Soprattutto, e qui non c’entrano più i numeri, è importante che gli imprenditori italiani convoglino le loro energie su elementi “intangibles: evitando di guardare con orgoglio esclusivamente alla qualità del proprio prodotto e tenendo in debita considerazione altri elementi cui gli interlocutori britannici sono altrettanto sensibili, quali le relazioni con il proprio acquirente, anche post vendita, il porsi come interlocutori unici e in grado di dare risposte celerivalorizzando il packaging e le campagne di marketing, e più in generale investendo sulla propria reputazione: in una parola, facendo gruppo e ammiccando al “branding”. Nell’era digitale Google docet: se “made in Italy” fosse un brand, dicono i guru di Cupertino, sarebbe il terzo al mondo, dopo Coca-Cola e Visa. “Bellezza, tradizione, creatività, eleganza, qualità”: secondo un altro studio, è questo il significato di “Made in Italy” per gli stranieri, ed è questo che permetterà all’estro italiano di trasformare, anche Brexit, in una sfida vincente.