Eppure: quando la mattina del 24 giugno 2016 il Regno Unito si è svegliato con l’esito del referendum sull’uscita dall’Unione Europea che vedeva il fronte dei Leavers vincitori di misura sugli europeisti, in pochi hanno compreso il significato reale di tale scelta. È stato presto etichettato come un voto di protesta, l’onda lunga del populismo serpeggiante nel vecchio continente, la nostalgia per un impero (quello di Sua Maestà) che da tempo non esiste più: in sintesi, l’ultima e più eclatante eccentricità britannica, qualcosa che fa notizia, ma alla quale pochi danno peso.
Del resto le dichiarazioni dei Leavers non lasciavano spazio ad analisi più approfondite: negoziare un free trade agreement con i partner dell’Unione sarebbe stato “uno degli accordi più semplici della storia dell’umanità”, secondo quanto dichiarato dall’International Trade Secretary Liam Fox. Fast forward, come si dice da queste parti, della vecchia guardia che ha guidato la nazione verso il voto non è rimasto più nessuno: non Nigel Farage, che ha detto di voler dedicare più tempo alla famiglia; non Michael Gove, impegnato a salvare gli oceani; non Boris Johnson, che continua a lamentarsi dalle retrovie. Il posto del negoziatore Brexit per il Regno Unito, l’altro Brexiteer di ferro David Davies, è stato quindi occupato da Dominic Raab, e con lui è arrivata la rivelazione: la Gran Bretagna è un’isola, si è improvvisamente accorto, e fa largo affidamento sul flusso tra Dover e Calais. Uscire dall’impasse, in fondo, non sarebbe stato così semplice…
Ed infatti, la soluzione – unica – che si è riusciti a trovare è stata quella dei numerosi rinvii: anche l’apocalisse, in fondo, può essere rimandata, il 29 marzo, che sembrava scolpito dalle più nefaste profezie è diventato un giorno come gli altri, anche il 12 aprile è stato superato con un colpo di spugna, e ad aumentare è stata unicamente la popolarità dello speaker della Camera, John Bercaw, che al grido di “Order” ha ricordato ai deputati che è necessario un accordo per poter recepire nell’ordinamento britannico il Withdrawal agreement. Anche la sorte non è stata clemente con il Governo, e ad un primo ministro ormai moralmente delegittimato ha fatto eco un rinvio che sa di beffa: 31 ottobre, Halloween. E mentre incombono le elezioni europee, come una moderna fenice risorge dalle ceneri Nigel Farage, pronto a convogliare con il neonato Brexit Party il malumore dei Leavers di estrazione trasversale ed inasprire ancor più il divario tra Conservatori e Laburisti. Theresa May e Jeremy Corbyn dovrebbero siglare l’accordo, e guidare il Paese fuori dallo stallo, ma le loro posizioni sembrano viaggiare su rette parallele: l’inceretezza continua a permeare la politica e guidare le scelte, personali ed imprenditoriali, di chi opera in suolo britannico e poco si fida de “la strana coppia” impersonata dai due leader May e Corbyn.
E gli imprenditori che operano in Regno Unito? Una ricerca condotta tra 1200 business leaders (esponenti delle PMI) dall’Institute of Directors tra il 17 ed il 19 gennaio 2019 ha rivelato che circa un terzo degli intervistati sta seriamente considerando di trasferire in tutto o in parte la propria attività all’estero, con un occhio di riguardo all’Europa.
Oltre a loro, le tante PMI, ci sono naturalmente le grandi corporation: ha fatto notizia il dietrofront di Nissan che ha confermato che X-Trail verrà prodotta in Giappone e non più a Sunderland. Questo, mentre Jaguar Land Rover ha annunciato tagli per 4.500 unità lavorative. Il settore automotive, del resto si sa, sarà tra i più colpiti dalla Brexit su entrambe le sponde del Canale: perché è quello che maggiormente si basa sulla chain production pan-europea.
E poi ancora Sony, Lloyds, JPMorgan Chase e i grandi colossi bancari, già con un piede nel vecchio continente; Ford, Honda Michelin, Rolls Ryce e in generale tutto il comparto meccanico ed automobilistico; P&O, che dopo 182 anni di storia britannica, presto opererà con bandiera cipriota. Soprattutto, ha fatto molto discutere il caso di Dyson, azienda britannica di proprietà 100% del suo fondatore Sir James, fervente Brexiteer che annuncia ora di stare rilocando il suo quartier generale a Singapore.