L’ ultimo allarme arriva dalla Direzione investigativa antimafia. Nella recente relazione presentata al Parlamento emerge chiaramente che le mafie punterebbero all’arrivo dei fondi previsti per il PNRR. Un’opportunità per le organizzazioni criminali che potrebbero approfittare delle difficoltà delle aziende per infiltrarsi nel sistema imprenditoriale e nell’attuale periodo post pandemico per ottenere contributi a fondo perduto o accedere a finanziamenti a tasso agevolato.
Il Recovery Plan italiano prevede che nel corso di sei anni (2021-26) il nostro Paese disponga di 191,5 miliardi di risorse stanziate da Bruxelles (68,9 a fondo perduto, 122,6 a debito) a cui si aggiungeranno circa 30 miliardi del fondo complementare istituito dal governo e 26 miliardi destinate a opere specifiche. Si tratta, complessivamente, di quasi 250 miliardi. Una cifra che nessun governo avrebbe mai potuto anche solo sognare appena un anno fa, quando le briglie del rigore di bilancio alle quali eravamo abituati dai tempi dell’introduzione dell’euro erano ancora strette.
È piuttosto curioso – o forse preoccupante – che in previsione di un così gigantesco flusso di risorse pubbliche destinato a investire le diverse articolazioni dell’amministrazione pubblica quasi in ogni angolo del Paese e molto intensamente il Mezzogiorno, nel dibattito pubblico si segnalino davvero poche occasioni di riflessione e di richiamo dell’attenzione sul rischio che la criminalità organizzata possa distrarre fondi consistenti, minando alla base non solo efficienza ed efficacia di spesa, ma anche il corretto funzionamento del mercato e persino solidità e tenuta di società civile e democrazia.
Le strutture investigative nazionali e sovranazionali hanno iniziato a svolgere un’azione importante già all’indomani dell’esplosione della pandemia, chiedendosi innanzitutto quali avrebbero potuto essere le strategie delle organizzazioni mafiose per intercettare le risorse pubbliche mobilitate e, successivamente, lanciando pubblicamente l’allarme.
Si tratta indubbiamente del primo e del più fondamentale dei fatti in contrasto con l’apparente disattenzione di media e politica. Ne hanno dato conto a più riprese e a più livelli – tra gli altri – Maurizio Vallone, direttore della DIA, e Catherine De Bolle, direttore esecutivo di Europol.